Un innovatore, capace di rompere gli schemi e di cambiare per sempre le relazioni industriali e la rappresentanza nel nostro Paese. Il mio commento sulla scomparsa dell’Ad di FCA Sergio Marchionne, sul quotidiano La Città-Resto del Carlino.

L’Italia è un Paese che deve imparare a volersi bene, deve riconquistare un senso di Nazione, disse una volta Sergio Marchionne. E per farlo, interpretando il suo pensiero, l’Italia deve tornare a valorizzare i talenti, ad attrarne dalle altre nazioni, a non cedere agli alibi e al vittimismo, evitando i compromessi al ribasso.

Per queste ragioni ho sempre amato Marchionne, la cui storia di emigrante diventato manager globale, dovrebbe inorgoglire tutti gli Italiani e invece li divide in modo superficiale, come se tutto potesse essere ridotto ad una semplice disputa sportiva.

O peggio, riattiva l’odio di classe verso chi ce l’ha fatta, contro chi ha avuto successo, come se la conquista della vetta non dovesse rappresentare l’esercizio più alto verso cui tendere e provare ammirazione. Soprattutto se a diventare il numero uno è un innovatore scomodo venuto dalla provincia, figlio di un carabiniere.

Le sue azioni e il suo ambiare per sempre esempio hanno dato speranza a quegli Italiani, che ogni giorno si impegnano per migliorare il nostro Paese. Le sue scelte radicali hanno cambiato le relazioni industriali e il suo modo di innovare il lavoro ha inciso più di venti anni di riforme.

Il primo colpo ben assestato al sistema della rappresentanza Sergio Marchionne l’ha dato alla fine del 2011, quando fece uscire l’azienda di Torino da Confindustria. Da allora tutto è cambiato nelle relazioni tra le imprese, le associazioni di categoria, le organizzazioni sindacali ed i territori.

Ognuno si è mosso in modo autonomo e, complice anche la debolezza della politica che non è riuscita a costruire una sintesi adeguata, Confindustria e sindacati per molti anni non sono stati più in grado di promuovere un approccio innovativo e sinergico alla risoluzione dei problemi. E la conflittualità, esasperata dalla crisi economica, si è tradotta in meno iscritti dall’una e dall’altra parte.

Alla fine del 2016, però, l’inversione di tendenza significativa destinata a cambiare le regole del gioco, e a innescare una nuova stagione di relazione, meno conflittuale e più costruttiva.

Prima il Patto per la Fabbrica, lanciato ad ottobre dal numero uno di Confindustria Boccia a Capri, e poi l’intesa siglata a novembre in Federmeccanica (con il quale per la prima volta sono state messe la formazione continua e il tema caro a Marchionne della valorizzazione delle competenze al centro dell’agenda oltre ad un aumento in busta paga di 92 euro mensili), hanno proiettato imprese e sindacati in un nuovo perimetro di gioco.

In un contesto di sfide nuove sia di prodotto (auto elettrica) che di organizzazione (sperimentazione anche in Italia del sistema tedesco che prevede la partecipazione del rappresentante degli operai nel Cda delle imprese) il sindacato e gli imprenditori o cambiavano strategia e atteggiamento, o sarebbero stati destinati a tutelare solo se stessi perché nessuno avrebbe trovato più convenienza ad iscriversi e a farsi rappresentare.

Se non ci fosse stato Marchionne ai vertici dei metalmeccanici della Cisl non sarebbe mai arrivato un altro innovatore, Marco Bentivogli, che ha modificato strategie, linguaggio e percezione di un sindacato che solo pochi anni prima si trovava a dover affrontare le pensioni d’oro dell’ex numero uno Bonanni, e una successione (quella targata Furlan) poco mediatica ed empatica.

Dai meccanici di Cgil e Cisl, non a caso i settori più industrializzati e forse gli unici in grado di comprendere davvero la portata negativa di almeno un ventennio di anticultura d’impresa e di interpretare la rottura del pensiero di Marchionne (le diatribe su Pomigliano e Melfi sono destinate a restare nella storia delle relazioni industriali italiane), è partita la costruzione di un nuovo sindacato, che ha voluto sperimentare nelle relazioni industriali, investire su un nuovo sistema di rappresentanza, farsi davvero innovatore e profeta, per citare le parole con le quali Papa Francesco ha indicato l’anno scorso alla Cisl la nuova strada lungo la quale muoversi.

Per tutte queste ragioni dobbiamo dire grazie a Sergio Marchionne, figlio della provincia agricola italiana (Remo Gaspari avrebbe trasformato la provincia di Chieti in una delle più industrializzate d’Italia molti decenni dopo), che è stato capace di innovare nel mercato del lavoro italiano più di quanto abbiano fatto tutte le riforme che si sono succedute negli ultimi venti anni.

L’Abruzzo e l’Italia devono rendergli omaggio con strade e piazze, ma soprattutto intitolandogli Scuole e Aule universitarie, i luoghi dove i talenti incontrano le occasioni.