Il crollo del Ponte Morandi non sia l’alibi per non realizzare le infrastrutture strategiche di cui il Paese ha bisogno. Il mio intervento su Il Foglio. 

Dopo la tragedia di Genova bisogna evitare di attivare un pericoloso dualismo tra la necessità di manutenere le opere esistenti, e l’indubbia urgenza di nuove infrastrutture.  A Genova sono a rischio 50.000 posti di lavoro. Il Governo deve chiedere all’Europa di istituire una Zona Economica Speciale, come sta avvenendo per i porti delle regioni del Sud, perché è fondamentale evitare che le imprese scelgano altre direttrici. Il 95% delle merci arriva nella città ligure su gomma. Il no alla Gronda e l’inadeguata infrastruttura ferroviaria a completamento del III Valico, hanno inevitabilmente contribuito a creare una tragedia dalle ripercussioni economiche incredibili, che rischia di coinvolgere anche il Piemonte e la Lombardia, e di cui beneficeranno i porti di Marsiglia e Barcellona.

L’inaugurazione del Ponte Morandi era la sintesi di un Paese che sperimentava e innovava. Negli ultimi 30 anni, invece, l’Italia ha realizzato solo il 13% di nuove infrastrutture, e in prevalenza sono state le nuove arterie ferroviarie a modificare la mobilità nel nostro Paese, ridisegnando anche l’urbanizzazione tra le grandi città e i cluster di sviluppo economico lungo la direttrice Napoli-Roma-Bologna-Milano, grazie all’ intuizione di Lorenzo Necci, grande manager di Stato che il Paese ha voluto dimenticare troppo presto. Oggi, invece, l’opposizione costante alle infrastrutture è diventata la cifra del Paese, come testimoniano i casi eclatanti della Tap, della Tav e della stessa Gronda. Le infrastrutture non sono più percepite come metafora dello sviluppo, ma al contrario vengono osteggiate perché costituirebbero il presupposto della corruzione. L’Italia del boom era identificata con le sperimentazioni architettoniche, che avevano la capacità di osare e di far sognare, come testimoniano gli straordinari manufatti della Bologna-Firenze, un’infrastruttura simbolica dell’Italia di allora che sfidava il futuro. Quei ponti, per la bellezza, l’ingegno e la tecnologia, dovrebbero essere catalogati come patrimonio Unesco.

In Italia esistono 1,5 milioni di ponti, il 2% dei quali è costantemente monitorato e controllato. Gli altri costituiscono una grande incognita e in prevalenza si trovano su tratti stradali gestiti da enti che non dispongono di risorse e personale, come avviene del resto anche con il Ministero delle Infrastrutture. Sui 7.000 ispettori del Ministero che dovrebbero operare a pieno regime per verificare che vengano svolti i controlli, solo 150 sono quelli effettivi. La tragedia di Genova sia, quindi, il monito per superare gli ostracismi beceri e ottusi che hanno bloccato il Paese dopo Tangentopoli.

Per tornare a investire nelle infrastrutture occorre, però, rafforzare i ruoli tecnici nelle pubbliche amministrazioni, che devono tornare ad avere nelle strutture tecniche allargate dei veri e propri centri di competenza capaci di fare programmazione e monitoraggio e controllo, dove possano finalmente lavorare insieme non solo ingegneri e architetti, ma tutte quelle competenze che concorrono alla realizzazione e alla comunicazione dei progetti innovativi, si pensi alle infrastrutture digitali.

Gli esempi positivi anche nella Pa italiana non mancano, come insegnano i casi di RFI, Italferr, ANAS, i cui bandi prevedono delle premialità per chi progetta in BIM, un plus che tra il 2019 ed il 2025 sarà considerato ordinario, impattando di fatto sulla capacità organizzativa delle strutture tecniche di progetto.

Il pericolo, infatti, è che senza un’adeguata riforma della Pa, interventi normativi in itinere (come quello sulle pensioni) svuoteranno gli enti locali delle poche competenze rimaste soprattutto nelle aree tecniche. Si creeranno, quindi, delle Amministrazioni di serie A, efficienti, e altre di serie B, che non dispongono di competenze tecniche, e che non saranno pertanto più in grado di investire nemmeno sulle manutenzioni delle opere già realizzate, come sta già accadendo in molti comuni di dimensioni medie e nelle stesse Province, chiamate a gestire un settore nevralgico come la viabilità senza praticamente avere a disposizione risorse economiche.