Per fare ripartire il Paese occorre investire sulle infrastrutture. Rispetto al passato, però, bisogna scegliere le infrastrutture che determinano lo sviluppo di un ecosistema. Il mio intervento su Il Foglio.
Mentre il resto del mondo in questo ultimo decennio ha scelto di investire sulle infrastrutture perfavorire una nuova fase di sviluppo, l’Italia è andata nelladirezione opposta. Dall’inizio della crisi del 2008, infatti, l’Italia ha registrato un gap di investimenti di circa 85 miliardi di euro; gli investimenti pubblici sono diminuiti di oltre un terzo, mentre quelli per le infrastrutture sono passati dai 29 miliardi del 2009 ai 16 miliardi del 2017.
Questo è il risultato di specifiche scelte di politica di bilancio, che hanno portato il Paese a contenere la spesa, agendo per lo più sulla componente in conto capitale e meno su quella corrente. Una posizione che ha segnato negativamente la riduzione della dotazione infrastrutturale e logistica, mentre l’intero settore delle costruzioni ha perso nello stesso periodo 600.000 posti di lavoro. Disinvestire nelle infrastrutture ècostato ogni anno all’Italia almeno un punto di Pil.
E’ quanto emerge dauna ricerca promossa dall’Osservatorio Nazionale sulleInfrastrutture di Confassociazioni e da Galgano Value Strategy, dal titolo “I-Volution,
Infrastrutture che innovano, dalle piattaforme agli ecosistemi”, i cui risultati saranno presentati oggi alle ore 10 nella Saladel Refettorio della Camera dei Deputati.
La riduzione degli investimenti è stata acuita dall’incapacità delle amministrazioni locali di programmare, pianificare ed eseguire gli interventi, vanificando importanti misure di rilancio per le infrastrutture previste già nella programmazione di Bilancio del 2017 (+23% di risorse). I Comuni, inoltre, hanno ridotto nel 2017 la spesa per investimenti in opere pubbliche di circa 800 milioni. Un risultato fortemente negativo dopo un 2016 chiuso con una diminuzione di spesa di 1,7 miliardi, nonostante la possibilità per i Comuni virtuosi di andare in deroga al Patto di stabilità.
Sarà dunque fondamentale ricominciare a programmare e a sostenere gli investimenti, perché la competitività del mondo globale passerà sempre di più dalla capacità di sviluppare le infrastrutture fisiche/digitali, velocizzando al contempo i processi amministrativi e individuando partner economici qualificati.
Per tornare a investire nelle infrastrutture occorre, però, rafforzare le aree tecniche nelle pubbliche amministrazioni, dove devono lavorare insieme non solo ingegneri e architetti, ma tutte quelle competenze che concorrono alla realizzazione e alla comunicazione dei progetti innovativi. Gli esempi positivi anche nella Pa italiana non mancano, come insegnano i casi di RFI, Italferr, ANAS, i cui bandi prevedono delle premialità per chi progetta in BIM, un plus che tra il 2019 ed il 2025 sarà considerato ordinario, impattando di fatto sulla capacità organizzativa delle strutture tecniche di progetto.
Occorre tornare a concepire l’infrastruttura come un corpo integrato e non estraneo al processo di sviluppo che si intende costruire. Sempre di più, infatti, la differenza tra un’infrastruttura utile e un’infrastruttura percepita come superflua, sarà determinata dal suo carattere ecosistemico.
Se nel dibattito dovesse prevalere la percezione di un corpo estraneo alla comunità (e nel nuovo Codice le parole più ricorrenti sono corruzione e Anac), si creerebbero le premesse per rinunciare alle infrastrutture. L’infrastruttura genera valore non in quanto opera, ma perché determina e contribuisce alla ridefinizione dell’ecosistema nel suo senso più ampio. Quando si fa ecosistema l’infrastruttura non è solo un progetto economico fondato sul mercato, ma si trasforma in un progetto sociale. Ed è spesso quest’ultima dimensione che determina la tensione sui territori, perché non viene correttamente interpretata a causa della percezione errata determinata dalla carenza di strategie di comunicazione e di partecipazione.