A pochi giorni dal decennale del sisma de L’Aquila ho pubblicato sul Messaggero un mio intervento sulla necessità di valorizzare l’esperienza di rigenerazione urbana, unica nel suo genere in Italia e in Europa. 

«Per la ricostruzione privata, che potrà avvenire in modo completo tra 4 o 5 anni, c’è un fabbisogno di oltre un miliardo e 800mila euro. Sulla pubblica, che potrebbe richiedere anche altri dieci anni, il discorso invece è complesso e bisogna lavorare sulle normative». Le affermazioni dell’assessore per la Ricostruzione del Comune de L’Aquila Vittorio Fabrizi (ospite ieri insieme a chi scrive dell’Ordine degli Architetti di Roma per fare il punto a dieci anni dal sisma), costituiscono una vera e propria road map non solo per programmare i prossimi anni, ma probabilmente per definire le modalità per semplificare nel Paese le procedure amministrative nel settore degli appalti.

In un momento nel quale in Italia si sta discutendo della modifica al Codice e degli strumenti per sbloccare i cantieri, la lettura di quanto è accaduto in questo decennio a L’Aquila ci aiuta a comprendere cosa serve davvero al Paese per favorire la ripresa delle costruzioni e dare vita ad una nuova fase di attrazione degli investimenti. Se a L’Aquila come in Italia il problema non è di risorse economiche (ci sono 25 miliardi di euro di investimenti bloccati a livello nazionale), quello che ha reso farraginoso il processo di ricostruzione e che lo ha praticamente anestetizzato ad Amatrice e in altri paesi del centro Italia, è stata innanzitutto la scelta di utilizzare la legislazione ordinaria per contrastare una emergenza che equivale ad una catastrofe. Fino a quando il legislatore non licenzierà il Testo Unico sulla gestione delle emergenze, la fase successiva ad una calamità continuerà a rappresentare un’incognita.

A L’Aquila i modelli di governance proposti da Guido Bertolaso e da Fabrizio Barca hanno segnato due passaggi nodali nella gestione positiva dell’emergenza prima e dell’avvio della ricostruzione dopo, ma poi nel prosieguo la burocrazia e la farraginosità delle norme hanno avuto il sopravvento sull’accelerazione dei progetti (soprattutto su quelli pubblici).

Chi continua a banalizzare il Progetto Case si ostina a non considerare l’aspetto principale che quella iniziativa ha consentito (evitare che i cittadini de L’Aquila abbandonassero la città), e trascura un dato essenziale e che invece è centrale nella prospettiva della ricostruzione.
A L’Aquila, infatti, ad ottobre 2009 tutti i bambini sono rientrati nelle scuole, seppure costruite in spazi provvisori, luoghi che però hanno significato una dimensione temporale per la ricostruzione diversa rispetto alla aleatorietà dello spostamento sulla costa, che avrebbe sradicato per sempre gli affetti e modificato la visione del futuro di ogni famiglia. A L’Aquila, come aveva individuato l’OCSE nella pubblicazione sulla rigenerazione del capoluogo abruzzese, investire sul futuro significa investire sulla innovazione. Il futuro de L’Aquila e dell’Italia sono il Gran Sasso Science Institute, l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, la sperimentazione all’Università della macchina intelligente con Google e FCA, l’investimento della media company cinese ZTE e i progetti simbolici come quello dei sottoservizi.Sta agli Aquilani (e agli Abruzzesi), però, recuperare l’orgoglio per valorizzare la più grande esperienza di rigenerazione urbana mai sperimentata in Italia, e rivendicare il primato della politica sulla burocrazia.