Il primo colpo ben assestato al sistema della rappresentanza Sergio Marchionne, scomparso esattamente cinque anni fa, l’ha dato alla fine del 2011, quando fece uscire la Fiat da Confindustria. Quella decisione nasceva dall’esigenza di sterilizzare il processo produttivo gravato da un assenteismo anomalo e da una contrattazione collettiva che stava imbrigliando l’azienda. La Fiat aveva bisogno di una contrattazione su misura per portare a casa il massimo che avrebbe potuto ottenere nella negoziazione, e Marchionne aveva intuito per primo questa esigenza, perché in gioco c’era la salvaguardia della Fiat che perdeva 5 milioni di euro al giorno.

Da allora tutto è cambiato nelle relazioni tra le imprese, le associazioni di categoria, le organizzazioni sindacali ed i territori. Ognuno si è mosso in modo autonomo e, complice anche la debolezza della politica che non è riuscita a costruire negli anni successivi una nuova idea di futuro (basti pensare alla forte cultura antindustriale del Movimento Cinque Stelle che permea ancora una parte della sinistra italiana), Confindustria e sindacati per molto tempo non sono stati più in grado di promuovere un approccio innovativo alla risoluzione dei problemi.

In un contesto di sfide nuove sia di prodotto (auto elettrica) che di governance (la sperimentazione in Italia del sistema tedesco che prevede la partecipazione del rappresentante degli operai nel Cda delle imprese) i sindacati e le associazioni di categoria hanno cominciato a cambiare metodologia e approccio al sistema della rappresentanza, come segnalava proprio Marchionne più di un decennio fa.

Una prima inversione di tendenza destinata a innescare una nuova stagione di relazioni, meno conflittuale e più costruttiva, la si è registrata alla fine del 2016, con il Patto per la Fabbrica lanciato ad ottobre dall’allora numero uno di Confindustria Vincenzo Boccia, e poi con l’intesa siglata un mese dopo in Federmeccanica.
Il Patto per la Fabbrica ha preconizzato un inevitabile cambio di strategia per superare la delegittimazione delle rappresentanze industriale e sindacale, che hanno vissuto per troppi anni stagioni interlocutorie ed opache, a tutela esclusiva dei diritti, senza considerare il tema dei doveri, come ebbe ad evidenziare proprio Marchionne allo stabilimento Sevel di Atessa il 9 luglio 2013.

Proprio dai metalmeccanici delle sigle sindacali, non a caso quelli più in grado di comprendere davvero la portata negativa di almeno un ventennio di cultura antindustriale, è cominciata la costruzione di un sindacato più coraggioso, che vuole sperimentare nelle relazioni industriali, investire su un nuovo modello di rappresentanza, farsi davvero innovatore e profeta, per citare le parole con le quali Papa Francesco ha indicato il sentiero lungo il quale il sindacato deve dirigere la propria azione.

Per tutte queste ragioni dobbiamo dire grazie a Sergio Marchionne, capace di innovare come pochi nel mercato del lavoro italiano. Se siamo diventati più moderni, infatti, lo dobbiamo ad un abruzzese di Chieti, figlio di carabiniere, emigrato in Canada a soli 15 anni.