Il primo colpo ben assestato al sistema della rappresentanza Sergio Marchionne, scomparso cinque anni e mezzo fa, l’ha dato alla fine del 2011, quando fece uscire la Fiat da Confindustria.

Quella decisione nasceva dall’esigenza di sterilizzare il processo produttivo gravato da un assenteismo anomalo, e da una contrattazione collettiva che stava imbrigliando l’azienda. La Fiat aveva bisogno di una contrattazione su misura per portare a casa il massimo che avrebbe potuto ottenere nella negoziazione, e Marchionne aveva intuito per primo questa esigenza, perché in gioco c’era la salvaguardia della Fiat che perdeva allora 5 milioni di euro al giorno.

L’obiettivo di Marchionne era quello di negoziare direttamente contratti integrativi aziendali, che avessero al centro la produttività in cambio di migliori trattamenti economici, con la prospettiva ambiziosa di rilanciare la produzione italiana, nonostante l’atteggiamento ostruzionistico della Fiom Cgil di Landini.

La scomparsa di Marchionne ha di fatto accelerato la fusione tra Fca e Peugeot, che in realtà è la storia della cessione del gruppo italoamericano ai francesi.
Non a caso il dividendo straordinario di 3,9 miliardi riscosso dalla proprietà italiana e garantito da una fideiussione pubblica di 6,3 miliardi favorita dal governo Conte 2, ha rappresentato la buona uscita per rinunciare all’amministrazione del gruppo automobilistico.
Tutto il management che conta, infatti, proviene da Peugeot, ed anche lo sviluppo e la ricerca sono stati sottratti agli storici impianti italiani e americani.

In buona sostanza la piattaforma produttiva italiana oggi deve competere con tutti gli altri Paesi dove Stellantis produce, senza alcuna diversa considerazione industriale per la storia dei prestigiosi marchi italiani che costituiscono il gruppo, e che costituiva il presupposto del progetto industriale di rilancio ideato da Marchionne.

Confindustria e le organizzazioni sindacali non hanno intuito che la fusione italofrancese avrebbe potuto rappresentare, come poi ha effettivamente rappresentato, una forte discontinuità nell’impegno produttivo in Italia.

Questa nuova condizione ha colto impreparato tutto l’indotto, che si ritrova oggi senza commesse e senza alcuna prospettiva di rilancio a breve e medio termine.

La produzione automobilistica italiana del 2022, infatti, si è fermata a 473.194 unità, un terzo della produzione spagnola, sette volte inferiore a quella tedesca.
Numeri così bassi mettono a rischio la tenuta dell’indotto, che potrebbe essere tentato di delocalizzare nei Paesi a più alta intensità di produzione.
Diversa, invece, sembra essere la storia dell’automotive commerciale, che ha nell’impianto della ex Sevel in Abruzzo il più importante stabilimento produttivo europeo, ieri visitato dall’Ad di Stellantis Tavares.

Stellantis, ha detto Tavares, mira a raddoppiare i ricavi delle vendite di veicoli commerciali leggeri entro il 2030. L’85% della produzione sarà esportato dall’Italia in 75 Paesi. Nei giorni precedenti la visita di Tavares si è cominciato ad assemblare anche un modello di Ducato elettrico, assicurando una prospettiva produttiva di lungo respiro, alla quale si accompagna la realizzazione della gigafactory a Termoli per la produzione di batterie elettriche.

Dopo le parole del presidente del Consiglio Meloni, l’unica speranza concreta perché l’automotive rimanga centrale nell’asset produttivo nazionale, è che il tavolo automotive trovi interlocutori internazionali credibili, in grado di sviluppare progetti in Italia, utilizzando l’affidabile e solida manifattura del nostro paese.