“L’Italia ha una complessità superiore determinata dal fatto che le regole di acquisto sono governate dall’Anac, l’Autorità per l’Anticorruzione. Questo fattore è meno rilevante in altri Paesi europei, dove è più facile semplificare”.

Nelle affermazioni dell’allora Commissario per l’Agenda Digitale Diego Piacentini, c’era tutto il senso del fallimento del modello organizzativo di Vasco Errani, che stava guidando da un anno la ricostruzione post-sisma nell’Italia centrale.

Quella filiera, infatti, non poteva funzionare a causa di una governance lunga, verticale e complessa, gravata da poteri troppo diversi tra loro, come lo sono quelli delle Sovrintendenze, dei Parchi nazionali, degli Uffici speciali dei Comuni e delle Regioni, della Protezione civile, del Commissario e del Governo, e appunto della stessa Anac, allora presieduta da Raffaele Cantone.

Il fallimento di quel modello balzò agli occhi di tutti dopo la morte per il freddo di decine di animali, fu evidenziato dall’impossibilità degli abitanti di Norcia di rientrare nelle abitazioni perché nessuno si era preso la briga di autorizzarli, dall’estrazione a sorte delle casette per alcune centinaia di persone prima ad Amatrice e poi ad Arquata, e dalla vista di quell’indicibile cumulo di macerie, che giaceva ancora lì ai piedi delle case sventrate dal sisma.

Per il terremoto che aveva coinvolto le regioni dell’Italia centrale si era deciso di procedere con le gare, determinando un processo farraginoso e oltremodo rigido, perché il committente nello svolgere la funzione di stazione appaltante, si stava esponendo al rischio del contenzioso, tipico delle procedure di selezione, con un incontrollabile allungamento dei tempi. Basti pensare, ad esempio, che per la realizzazione delle piastre sulle quali costruire le casette ad Accumoli parteciparono 274 imprese.

In quel caso, come è già accaduto nella scorsa estate con la discussione sui controlli contestuali sul Pnrr attribuiti alla Corte dei Conti che il Governo intendeva giustamente ridimensionare, chi aveva suggerito di procedere attraversi dei controlli a campione ex post fu accusato di favorire la criminalità organizzata.

Una polemica strumentale allora, così come la nuova questione posta dalla Corte dei Conti sulla proroga dello scudo erariale.

Introdotto nel 2020 con il Covid e inserito nel Decreto legge Semplificazioni firmato dal governo Conte 1, lo scudo limita in via eccezionale la responsabilità erariale di amministratori, dipendenti pubblici e privati a cui è affidata la gestione di pubbliche risorse ai danni provocati dalle sole condotte accertate con dolo o quelli causati da grave omissione o inerzia, escludendo quindi ogni responsabilità per colpa grave.

La misura è stata poi prorogata dal governo Draghi, soprattutto per agevolare i progetti del Pnrr, evitando che venissero bloccati dalla burocrazia difensiva, ed è stata poi rilanciata dal governo Meloni nel decreto Pnrr sulla Pa del 2023, che come detto ha cancellato il controllo concomitante della Corte sugli investimenti del Piano nazionale di ripresa e resilienza.

La magistratura contabile non aveva e non ha alcuna ragione di preoccuparsi, perchè il Governo sta semplicemente ripristinando il primato della politica. Ogni volta che è accaduto nel passato anche a sinistra (D’Alema ai tempi della Bicamerale ipotizzò di togliere alla magistratura contabile la funzione giurisdizionale, mentre Prodi propose per snellire l’aggiudicazione delle gare sulle infrastrutture il divieto del ricorso alla magistratura amministrativa) lo scontro tra politica e magistratura è apparso inevitabile. In una economia di mercato già sottoposta a procedure farraginose, le ingerenze preventive della magistratura irrigidiscono ulteriormente la macchina amministrativa, con ripercussioni rilevanti anche sul piano occupazionale e della concorrenza con gli altri paesi europei, che hanno misure fiscali e strumenti di politica industriale più leggeri e duttili.