La crescita di un sistema economico e sociale non deriva solo dalla disposizione delle risorse finanziarie. Nel caso del Pnrr queste risorse, anche se in massima parte contratte a debito, sarebbero state di ingente valore, e oltretutto si sarebbero sommate ai Fondi comunitari tradizionali, la cui nuova programmazione è appena cominciata.
L’analisi di almeno tre indicatori avrebbe richiesto nel passato meno enfasi quando si è trattato di parlare di Pnrr: le risorse europee non spese alle scadenze previste; il tempo necessario per realizzare in Italia un’infrastruttura del valore medio di 100 milioni; il depauperamento delle aree tecniche e il blocco del turnoverdelle amministrazioni locali.
Se la sfida del Paese con il Pnrr era anche quella di implementare la cultura della managerialità nella Pubblica amministrazione, i numeri impietosi della spesa rendicontata sui fondi comunitari e i 15 anni medi per realizzare un’infrastruttura del valore di 100 milioni, dovevano rappresentare la spia che avrebbe dovuto indurre i Governi Conte II e Draghi ad un esercizio di maggiore cautela trattando un argomento così ostico e potenzialmente deflagrante quale era, ed è ancora di più oggi, quello del Pnrr.
Era infatti impensabile ammodernare il sistema infrastrutturale italiano in soli quattro anni, nonostante il Pnrr avesse previsto il ricorso all’appalto integrato.
E la revisione delle modalità e dei tempi di attuazione delle opere, come poi effettivamente è stato, sembrava essere l’unica opzione possibile per agevolare la progettazione e la realizzazione degli interventi, e il trasferimento di altri sul Fondo di Sviluppo e Coesione.
Alla luce di queste doverose premesse i dati comunicati ieri dal Governo attraverso il ministro Fitto, nel corso della IV Cabina di Regia sulla stato di attuazione del Pnrr, sono un indicatore chiaro della direzione di marcia che è stata intrapresa nel 2023 (il primo anno del Governo Meloni) con un’accelerazione significativa sul fronte della progettazione, che costituiva una grande incognita a causa soprattutto dello svuotamento delle aree tecniche negli enti locali. Non è un caso che l’apparato statale abbia risposto bene all’impatto del Pnrr sulle strutture dei Ministeri. Le difficoltà continuano a riguardare le amministrazioni locali, che stanno investendo sulle figure tecniche, un percorso obbligato nella gestione di progetti complessi per rendere più competitivi i territori italiani, con una ricaduta significativa anche sul sistema locale delle imprese.
Alla fine del 2023 l’Italia è riuscita a spendere 45,65 miliardi di euro. Lo scorso anno in dettaglio sono stati spesi 21,1 miliardi contro i 40,9 indicati l’anno precedente nella Nadef. L’Italia finora ha ricevuto 102,5 miliardi di euro sui 194,4 complessivi, ed è riuscita a centrare tutti gli obiettivi previsti.
Nel 2024 gli obiettivi associati alla sesta rata pari a 9,6 miliardi sono 39; 74 i traguardi connessi alla settima rata, pari a 19,6 miliardi di euro. Si è trattato di uno sforzo ingente da parte del Governo, che non si è tradotto solo nell’impresa improba di raggiungere tutti i target programmati, perché la proficua collaborazione con la Commissione europea ha prodotto il complesso processo di revisione del Piano con l’integrazione del nuovo REPowerEU, l’implementazione delle riforme e la rimodulazione di numerose misure strategiche per la crescita economica strutturale dell’Italia, puntando maggiormente sulla digitalizzazione, sulla sostenibilità ambientale e sulla resilienza del tessuto economico e sociale. Dopo il 2023, l’anno della rimodulazione del Piano e dell’accelerazione delle progettazioni, oggi ci sono finalmente le condizioni per vincere la sfida del Pnrr.